“Noé era stanco di fare il profeta di sventura e di annunciare incessantemente una catastrofe che non arrivava e che nessuno prendeva sul serio. Un giorno, si vestì di un vecchio sacco e si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestito dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città, deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli abitanti. Ben presto ebbe radunato attorno a sé una piccola folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto. Noé rispose che erano morti in molti e, con gran divertimento di quanti lo ascoltavano, che quei morti erano loro. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noé si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sarà una cosa che sarà stata. E quando il diluvio sarà stato, non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa, si sbarazzò del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo, e andò nel suo laboratorio. A sera, un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: lascia che ti aiuti a costruire l’Arca, perché quello che hai detto diventi falso. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto diventi falso” (Citato da Jean-Pierre Dupuy, Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, Donzelli, Roma 2006, pp. 8-9).
Cosa possiamo allora fare Noi, in attesa che prenda forma una sorta di “responsabilità organizzata”, per evitare la deriva, per evitare che il nostro pianeta ci espella e si liberi di noi?
Come dice Serge Latouche dovremmo cominciare a “decolonizzare il nostro immaginario” mettendo in discussione il modello economico e sociale in cui viviamo. Dobbiamo combattere l’idea che ci induce a considerare il mondo e la nostra vita come un gigantesco centro commerciale, senza pareti, senza limiti, senza frontiere e senza altro scopo all’infuori del consumo. Dobbiamo anteporre in ogni nostra scelta le questioni della vita a quelle dell’economia. Dobbiamo perseguire nella ricerca di una felicità ad personam, diversa per ognuno di noi, che rifugga dai modelli e dagli stereotipi dominanti. Non può accadere nulla di rilevante se non nella differenza. Possiamo essere parte attiva di un movimento diffuso di “consumatori difettosi” che come tanti granelli di sabbia rallentino questa corsa senza futuro. Ogni nostro gesto può essere ripensato e reinterpretato alla luce di una visione del mondo più equa e responsabile. Basta chiedersi da dove arriva il cibo, l’energia e tutte le cose che riempiono la nostra giornata; e dove vanno a finire i nostri rifiuti, i nostri vecchi computer, televisori, elettrodomestici, automobili e così via. Recuperare il senso del limite. Una presa di coscienza tra il limite che separa la “libertà dal bisogno” dall’arroganza ci consente a pieno titolo di salire sull’Arca.
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